Gaza: lo spaziocidio dell’infanzia
Un testo di Silvia Di Eusanio, dottoranda e ricercatrice in economia femminista, e Márcia Gobbi, professoressa presso la Facoltà di Pedagogia dell’Universidade de São Paulo.︎24/10/25
Lo spazio non è neutro.
Le rappresentazioni che lo definiscono e le pratiche che lo attraversano — soprattutto quando illegittime — partecipano alla sua produzione.
Come collettivi formati in gran parte da architette, studiose dello spazio e dell’infanzia, riconosciamo la dimensione politica e la responsabilità che comporta l’uso dell’architettura.
Architettura, urbanistica e paesaggio possono diventare strumenti di oppressione, segregazione e cancellazione della vita quotidiana e della memoria dei luoghi.
Quando lo spazio diventa mezzo di controllo e devastazione, la prima negazione è quella di essere bambin*.
Nel laboratorio degli orrori di Gaza, esiste ancora spazio per l’infanzia?
O questa è stata sostituita dall’attesa costante della morte, trasformandoci — da spettatrici distanti — in complici, responsabili di ogni vita negata?
Ci chiediamo quale sia, oggi, la possibilità di catturare l’imponderabile: un gesto che non restituisce mai davvero ciò che accade, ma che lascia un segno in chi osserva.
“Tu passavi, in un istante ti ho percepita. Percepirti: vederti senza imprigionarti nelle reti dell’immobilità... La tua immagine non la possiedo, ma resta in me. È lei che mi possiede d’ora in poi.”
(Didi-Huberman, 2018)
Non possediamo quelle immagini di devastazione, ma sono loro a possedere noi.
Arrivano alla fine di giornate inquiete, tra lo scorrere distratto di notizie e fotografie che si dissolvono.
La storia raccoglie da sempre atrocità e tragedie a cui ormai siamo abituate, ma le immagini che ci portiamo dentro raccontano tutte le vite cancellate dalle mappe delle imposizioni urbane, a causa di politiche che fanno della distruzione di territori e popoli una pratica quotidiana.
Ci chiediamo cosa ci lasciano queste immagini di pentole vuote, mani alzate e, accanto, loro: bambine e bambini.
La fame si legge nei loro occhi, quasi opachi.
Ci chiedono un’eco, e nel guardarli siamo diventate complici. E responsabili.
Ci interroghiamo anche sulle immagini che non vengono pubblicate — quelle che spariscono prima ancora di raggiungerci.
Cosa nascondono, o cosa mostrano nella loro assenza?
Cosa si cela dietro le mani alzate, le pentole vuote, il grigio imposto a un giorno di sole?
Le immagini di Gaza — frammentarie, discontinue — rischiano di abituarci alla catastrofe.
Ogni giorno ascoltiamo di un’altra crisi, un altro bombardamento, un’altra fame: la distanza geografica diventa giustificazione, e l’oblio una forma di sopravvivenza.
Non condividiamo immagini, ma crediamo che da ciò che si imprime nel corpo possano generarsi pensieri e azioni.
Riflettere è urgente: non come esercizio teorico, ma come gesto politico di resistenza alla normalizzazione del disumano.
Non siamo esperte di guerre, e questa consapevolezza ci imbarazza.
Ma riconosciamo l’urgenza di scrivere, di prendere posizione, di restare umane davanti all’inaccettabile.
Perfino per mettere in discussione l’uso stesso della parola guerra: per combattere servono condizioni simili, e qui la sproporzione è totale.
Indignarci è, forse, una forma di resistere alla vita negata di chi osserviamo.
Di fronte a ciò che accade, non abbiamo risposte definitive, ma sentiamo la necessità di pensare a Gaza come al laboratorio contemporaneo della brutalizzazione: un luogo dove l’umano mostra di non avere limiti alla propria ferocia.
Qui l'infanzia è il bersaglio più facile.
Bambine e bambini vivono immersi, in modo esasperato, nelle dinamiche di potere e colonialismo.
Ci fanno dubitare che siano ancora riconosciuti come bambin* — con storie, diritti, desideri — o soltanto come corpi ridotti a meri oggetti dentro una disputa.
Le riflessioni di Berenice Bento (2025) ci ricordano che le atrocità contro l’infanzia percorrono la storia come un filo continuo, spesso senza nome, dissolto nella polvere.
I bambini che sopravvivono a Gaza comprendono la guerra con tutto il corpo.
Sono bambini, dopotutto.
E le infanzie, intese oltre la dimensione biologica, sono costruzioni sociali e politiche, modellate dalle relazioni tra adulti, potere e spazio.
Da questa prospettiva, una domanda si impone: come vengono forgiate le infanzie di Gaza?
In questo laboratorio dell’orrore, la morte non è solo un esito, ma un’attesa.
Vivere sotto la prospettiva quotidiana della morte genera un’altra forma di infanzia — una in cui il diritto al gioco, tanto tutelato dalla pedagogia, è diventato un lusso irraggiungibile.
Il gesto del gioco emerge tra le macerie.
Quante storie d’infanzia si stanno producendo tra le rovine?
Il rischio è che nulla ci scuota più, che le macerie diventino paesaggio, e il gioco improvvisato venga letto come semplice resistenza, invece che come grido per diritti negati.
È necessario riconoscere che, sebbene alcuni sopravvivano, altri vengono sistematicamente cancellati — fin dai primi momenti di vita.
E ciò avviene sotto gli occhi di tutti e tutte, ogni giorno, a Gaza.
Lo spazio è sempre una scelta politica.
A Gaza, una delle ferite più profonde è la distruzione dei territori dell’infanzia: spazi di vita, di gioco, di futuro.
È urgente interrogarsi sul ruolo dell’architettura nella produzione dello spazio di un’infanzia espulsa, stremata, affamata, i cui diritti non vengono realizzati e le cui vite restano sconosciute.
Tutto continua, e noi scriviamo.
Scriviamo perché la parola è ancora spazio, e nello spazio della parola può nascere un gesto politico, fragile ma vitale.
E mentre scriviamo, vediamo le immagini di bambini e bambine seduti sulla sabbia della striscia di Gaza, con quaderni da disegno tra le mani, disegnano tra i detriti, tracciano linee e segni su fogli stropicciati che raccontano, anche loro, le condizioni delle loro piccole vite.
Forse, disegnano a matita un altro tempo.
Di fronte a tanto dolore, noi scegliamo di non restare neutrali: denunciamo la violenza che si esercita anche attraverso l’architettura e rivendichiamo il diritto a immaginare spazi liberi dall'oppressione, disegnati insieme alle bambine e ai bambini di Gaza.
Silvia Di Eusanio, dottoranda in Scienze Economiche e Sociali presso l’Università di Teramo e l’Universidade de São Paulo (USP), ricercatrice in economia femminista, esplora il nesso tra cura, spazio e disuguaglianza di genere. Co-founder di Cocreiamo, associazione di promozione sociale che mette le infanzie al centro della produzione dello spazio.
Márcia Gobbi, professoressa presso la Facoltà di Pedagogia dell’Universidade de São Paulo (USP), ricercatrice e artista, studiosa dell’infanzia e delle relazioni tra spazio, occupazioni urbane, genere, arte e educazione. Co-founder del gruppo di ricerca e studi interdisciplinare: Crianças, Práticas Urbanas, Gênero e Imagens.
SEDE
via Giannina Milli 9,
64100 Teramo (TE)
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